di Giovanna Chiantelli
Sono stata allevata in una borgata di circa trecento anime delle quali la maggior parte era formata da contadini o da operai agricoli. C’era un unico negozio chiamato “l’appalto”, di tabacchi, naturalmente. Per qualunque altro rifornimento si doveva fare circa due chilometri e raggiungere la sede del Comune, una metropoli con un mercato settimanale nella grande piazza e negozi di ogni tipo, si fa per dire, inoltre c’erano un avvocato e un notaio a tempo parziale e ben due medici e un’ostetrica.
Vi ho vissuto fino al 1944, poi dovemmo sfollare nell’interno per motivi bellici, poiché il borgo si snodava lungo la via provinciale casentinese e fu minato e distrutto completamente dai tedeschi in ritirata. La guerra fino allora ci aveva appena sfiorato, almeno noi bambini.
In quei meravigliosi e sognanti dieci anni della mia prima esistenza ho vissuto completamente fuori del tempo. Tutto era commisurato alle faccende dei campi, al loro ritmo. Alla fonte (solo tre famiglie avevano il privilegio dell’acqua in casa), dove un crocchio di donne con la mezzina di rame attendeva per attingere acqua, si poteva udire un dialogo di questo genere: «Ciao Gemma, quando torna la tu’ Mariuccia?» La figlia di Gemma andata per l’inverno a servizio a Firenze. «Quando si zappetta il grano», era la risposta. Non c’era bisogno di altro: tutti sapevano di che periodo si trattasse.
Le macchine agricole erano allora sconosciute al mio piccolo borgo: si arava con i buoi e con il bifolco dietro l’aratro, così come si seminava a mano e si mieteva con la falce, ogni famiglia aiutandosi a vicenda. Ricordo come, sul tardo pomeriggio di prima estate, arrivasse nel campo in cui si mieteva la massaia con un immenso tegame di smalto rosso con dentro l’ocio (così là chiamavano quelle grandi oche bianche col becco rosso-arancione) che nuotava non più nell’acqua ma in un abbondante e gustoso sugo. Tutti, allora, interrompevano la mietitura, si sedevano in cerchio, ricevevano un’enorme fetta di pane che fungeva anche da piatto e, con un unico forchettone, tiravano su dal tegame un pezzo di carne e lo appoggiavano sul pane, gustandoselo con appetito. Intanto, giravano fiaschi del vino e brocche d’acqua, queste meno frequentate. E la gente, benché stanca, scherzava, rideva con lazzi che io, troppo piccola ancora, spesso non capivo. Poi si riprendeva a falciare finché c’era luce. Le mannelle di grano venivano legate e diventavano covoni che poi il carro tirato dai buoi trasportava sull’aia in attesa della trebbiatura.
Ricordo le processioni alla Madonna di Orgi, un piccolo santuario in mezzo alla campagna, per scongiurare la siccità. La festa annuale del patrono, San Donato, era un avvenimento gioioso e solenne sia dal punto di vista religioso che profano. Arrivavano tutti i preti del circondario, tutti a pranzo in canonica, e poi giostre e banchi con meraviglie di ogni genere per noi bambini, ma anche per quella gente semplice.
Il pane veniva fatto in casa settimanalmente e cotto nell’unico forno a legna dislocato al centro del borgo. Ogni famiglia aveva il proprio turno assegnato e il profumo del pane accompagnava il ritorno della massaia, lasciando una scia tutt’intorno nel suo viaggio con l’asse sulla testa in cui erano disposte, coperte con un panno, le belle forme di circa due chili l’una che dovevano durare per l’intera settimana. Ai bambini, con la pasta del pane, venivano cotti degli omini, accolti con grande gioia dai piccoli.
Sono tanti i ricordi che affiorano alla mia coscienza, compresi quelli relativi a episodi che, una volta adulta, mi hanno fatto comprendere quanto dura fosse la vita di quella gente da giustificare, negli anni del dopoguerra, il successivo esodo dalla campagna verso la città nel tentativo, spesso illusorio, di una vita migliore.
Dall’età di tredici anni divenni cittadina e da allora lo sono rimasta per sempre, conservando però nel cuore l’amore e anche una conoscenza dei ritmi della natura, uniti talvolta a una sommessa nostalgia per quel mondo.
A circa venticinque anni d’età ho incontrato la Scienza dello Spirito che, nel tempo, mi ha condotto dal lavoro nel ramo dell’informatica, praticato per quasi trent’anni, a diventare dapprima maestra steineriana e, in seguito, formatrice di maestri Waldorf.
Nell’autunno del 2012 ero alla presentazione del libro di Peter Selg “Koberwitz, Pentecoste 1924”, edito dalla Aedel di Torino. Mi spinsero ad andarvi un insieme di circostanze esteriori e interiori. Quella serata fu per me illuminante. Compresi subito di trovarmi a una svolta della mia vita spirituale, anche se, per ovvi motivi anagrafici, niente avrei potuto realizzare materialmente in questa incarnazione, ma coltivarne soltanto l’anelito.
Man mano che i vari oratori parlavano, provai un’emozione profonda e compresi subito che agricoltura biodinamica e pedagogia, due fra i tanti grandi doni di Rudolf Steiner, in futuro, avrebbero dovuto collaborare strettamente per salvare almeno una parte di umanità dalla decadenza in cui siamo piombati e che sembra inarrestabile. In me cominciò ad albeggiare un progetto che sentivo venirmi incontro dal futuro. Da allora immagino comunità basate sulla Scienza dello Spirito in cui l’infanzia venga accolta amorevolmente e avviata a un nuovo rapporto con la natura, con i suoi ritmi, scanditi da persone consapevoli e coscienti. Cultura e colture dovranno interagire non unicamente in previsione del profitto ma per offrire agli esseri umani, soprattutto in età evolutiva, le forze fisiche e morali affinché, una volta adulti, possano contribuire a realizzare la meta della Terra.
Nel libro sopra citato, mi sono rimaste impresse e le ricordo continuamente, diffondendole appena trovo orecchi disposti all’ascolto, le parole che Rudolf Steiner disse a Ehrenfried Pfeiffer che gli aveva domandato: “come mai, nonostante le grandiose e numerose indicazioni che Lei ha fornito, l’impulso spirituale (…) sia così poco attivo nelle singole persone e che gli interessati, nonostante tutti i loro sforzi, possano dimostrare così poche manifestazioni di ciò che vivono e sperimentano a livello spirituale? E soprattutto, perché, nonostante ci sia la convinzione teorica, è così debole la volontà che diventa azione e che porta a realizzare con successo gli impulsi spirituali?”
La risposta per me sconvolgente di Rudolf Steiner fu:
“Questo è un problema di alimentazione. Per il modo in cui è conformata l’alimentazione al giorno d’oggi, questa non trasmette più all’uomo la forza di rendere manifesto lo spirituale nel fisico. Non è più possibile gettare un ponte tra il pensare, il volere e l’agire. Le piante alimentari non contengono più le forze che dovrebbero dare all’uomo”.
Dalla questione dell’alimentazione, e quindi dell’agricoltura, dipende il futuro dell’uomo, anche dal punto di vista spirituale (op. citata).
Da quanto premesso, ci rendiamo conto di come l’alimentazione, per la quale dipendiamo totalmente dall’agricoltura, assuma un’importanza fondamentale per la salute fisica e per l’evoluzione spirituale dell’umanità.
“Mens sana in corpore sano” è un vecchio detto arrivato a noi dall’antica saggezza ispirataci dagli dei, saggezza manifestantesi in antico nell’istinto che ora non ci soccorre più. Ora è giunto il tempo dell’anima cosciente in cui dobbiamo far scaturire la saggezza dalla nostra individualità matura e assumerci tutta la responsabilità delle nostre azioni. L’istinto va spengendosi, altrimenti mai potremmo giungere alla libertà, che è poi la reale capacità di realizzare azioni di amore puro e disinteressato, scevro da passioni o interessi personali.
Alimenti sani quindi, dove, già alla sorgente, l’agricoltore si preoccupa di infondere in ciò che coltiva, attraverso azioni d’amore, il meglio della propria individualità, tesa allo sviluppo di una moralità che non proviene più, come in antico, dall’esterno, da dei precetti, da delle convenzioni, bensì sgorga dalla propria anima anelante al bene comune.
Allora gli alimenti, già sani se ottenuti col metodo biodinamico introdotto da Rudolf Steiner, avranno in sé un valore aggiunto: la moralità infusa in loro dalle azioni d’amore.
Con azioni d’amore non s’intende qualcosa di sentimentale, di personale che ci gratifica soggettivamente, bensì significa migliorare sempre la nostra competenza, le nostre conoscenze per metterle a servizio della comunità umana. Talvolta ciò implica rinuncia, sacrificio per realizzare sempre meglio il proprio lavoro, per offrire un contributo attivo al vero progresso dell’umanità (Si veda la conferenza di Steiner del 28 maggio 1910, inserita nel volume “Le manifestazioni del Karma” O.O. 120, e le prime pagine di Iniziazione).
Avere alimenti sani vale tanto più per l’infanzia, per il primo periodo di vita, durante il quale corpo anima e spirito lavorano unitariamente alla formazione della struttura corporea, lo strumento che, una volta superati i vent’anni, permette a ogni uomo di realizzare il compito karmico pertinente la propria incarnazione, dando contemporaneamente un contributo all’evoluzione della Terra.
L’alimentazione dei bambini, dunque, va curata con grande attenzione: dalla scelta delle sostanze, dal modo in cui le cuciniamo, da come le presentiamo in tavola, all’atmosfera che riusciamo a creare nel momento del cibo.
Spesso ho pensato alle mense scolastiche della scuola pubblica, dove la finalità da parte di chi le gestisce è il profitto, quindi non si guarda di certo per il sottile nell’acquisto dei materiali, anzi si cerca di risparmiare su tutto e la qualità è sicuramente l’ultimo pensiero di chi le appalta. Inoltre la preparazione industriale fatta con il massimo del risparmio sulla mano d’opera, spesso sfruttata a bassissimo costo, crea in chi lavora sentimenti di scontento, di rabbia contro ingiustizie che generano difficoltà oggettive di vita in sempre più larghi strati sociali.
Nessuno pensa, ad esempio, che la preparazione del cibo sia altrettanto importante come l’origine delle sostanze usate: i sentimenti che animano chi cucina si riversano negli alimenti. È ben diverso un cibo preparato amorevolmente con buoni pensieri da una mamma o da un famigliare, oppure anche da una persona estranea che però vi mette consapevolezza e coscienza, volendo eseguire il suo lavoro al meglio, affinché sia nutriente e buono anche animicamente per le persone cui è destinato. Si percepisce eccome, quando qualcosa è preparato con amore.
Quanto al prediligere un tipo di alimentazione rispetto a un altro, occorre non essere fanatici, occorre attivare la coscienza e rendersi conto che non tutti gli organismi sono uguali. C’è chi ha un maggior bisogno di certe sostanze, chi di altre. Per gli adulti preposti all’alimentazione dei bambini, occorre sviluppare grande attenzione e sensibilità per saper distinguere fra un capriccio o una vera repulsione per alcuni alimenti. Talvolta dietro al disgusto si celano importanti indicazioni sulle necessità o su certe debolezze organiche di un bambino.
In generale, è opportuno limitare la carne, perché se un bambino fin da piccolo mangia molti vegetali, cresce con un apparato digerente più robusto. Mangiando carne, il lavoro della trasformazione dell’alimento in proteine è in parte svolto dall’animale e l’organismo fa una fatica minore, quindi rimane più debole, come un muscolo poco esercitato. Questo non significa una fanatica esclusione della carne.
Ricordo che molti anni fa ero ospite per un’intera estate da un’amica che aveva due bambini, uno di tre l’altra di cinque anni. Mentre la più grande era forte e molto vitale, il piccolo era diafano, con una pelle delicata, capelli di un biondo quasi “argenteo”, fragilissimo. La famiglia aveva adottato la cucina vegetariana, ma il piccolo chiedeva sempre “carne, carne” e, quando lo accontentavano, mangiava con gusto e grande appetito, mentre di solito era una pena farlo mangiare. Finalmente la madre si decise a consultare un medico antroposofo, il quale le disse che quel bambino aveva assoluto bisogno di carne, almeno tre volte in settimana, altrimenti sarebbe “volato via”.
Quindi bisogna escludere ogni fanatismo e sorvegliare attentamente la dieta da proporre in famiglia, soprattutto ai bambini. L’ideale resta sempre un atteggiamento equilibrato.
In generale, in tutti gli aspetti dell’esistenza, sia fisici sia animico-spirituali, il benessere, come la virtù, sta in un equilibrio fra il troppo e il troppo poco che l’uomo deve conquistarsi con l’evoluzione morale del proprio io. I bambini devono essere avviati a questo con l’esempio, con una vita famigliare il più possibile serena ed equilibrata. L’animale è regolato dall’esterno, dall’istinto, dal suo io di gruppo, l’uomo, dopo essere stato a lungo assistito dalle gerarchie spirituali, ora è sempre più affidato al proprio io individuale per divenire un essere libero.
Nel primo settennio di vita l’essere umano impara a stare sulla Terra imitando tutto dal suo ambiente: perfino i pensieri degli adulti attorno a lui vengono avvertiti inconsciamente, assimilati, e contribuiscono alla strutturazione del suo corpo. Ne discende che occorre che un bambino abbia dei buoni modelli cui riferirsi.
Il momento della tavola, della condivisione del cibo può diventare un fattore importante per la sua formazione e la sua sicurezza futura: ordine, pulizia, un comportamento composto da parte degli adulti, l’esclusione di ogni gesto di avidità, il pronunciare parole di apprezzamento e gratitudine verso chi ha preparato quel momento conviviale in cui la famiglia si riunisce quotidianamente possono costituire il fondamento per una costruzione morale e affettiva.
Soffermiamoci per un attimo a pensare quante persone, oltre a chi materialmente ha cucinato per noi, dovremmo ringraziare per ogni boccone che portiamo alla bocca: ogni alimento proviene da un negozio e ciò implica il lavoro di alcune persone, qualcuno prima lo ha trasportato, altri prima ancora lo hanno raccolto, curato, seminato. Hanno inoltre dovuto attivarsi tutte le forze della natura: sole, pioggia, neve, ecc., nelle quali agiscono tanti esseri elementari, guidati dalle gerarchie spirituali che effondono i loro doni dal cosmo… A tavola, se riflettiamo bene, abbiamo intorno a noi un’infinità di persone e di esseri che provvedono alla nostra sussistenza, affinché si possa svolgere il nostro cammino sulla Terra, l’unico luogo nel quale è data all’uomo la possibilità di far evolvere il proprio io.
Se un bambino da piccolo è avviato su questa strada, ha assimilato delle buone abitudini che si sono intessute con la struttura corporea e animica del suo essere, anche quando sarà più grandicello e perfino nel burrascoso periodo dell’adolescenza conserverà, magari contestandolo, un buon comportamento, comunque diventerà un abito permanente nell’età adulta.
Voglio chiudere queste mie brevi riflessioni con alcuni versi di Angelo Silesio, un mistico e poeta tedesco del XVII secolo, addottoratosi a Padova in medicina e filosofia, parole che potrebbero essere introdotte prima dei pasti come una benedizione:
Non è il pane che ci nutre,
ciò che ci nutre nel pane
è la parola eterna di Dio,
è la vita, è lo spirito.