sintesi delle relazioni tenute all’oasi S.Benedetto il 17-19 giugno 2011 –
prima parte di Stefano Pederiva
Per l’uomo attuale la natura viene vissuta come una realtà che sta fuori di noi, di cui ci serviamo per nutrirci, vestirci, costruire case, macchine e così via, di cui ci consideriamo padroni sfruttandone i materiali e l’energia. Ciò corrisponde alla nostra moderna coscienza scientifica: guardiamo verso la natura come spettatori, ne studiamo le leggi con un approccio prettamente quantitativo e analitico, considerando la dimensione morale della nostra esperienza come una realtà privata e personale, del tutto staccata dalla ricerca scientifica. Una visione chiaramente dualistica. Quale conseguenza si evidenzia da questa impostazione ? E. Fromm la caratterizza dicendo: la scienza attuale ha un carattere necrofilo, cioè distruttivo nei confronti della natura. Il dramma ecologico ne è la più evidente espressione. Il principio analitico ha in sé un processo di divisione, un insieme viene fatto a pezzi e poi mi restano in mano le parti. Se tento di ricomporle ottengo una macchina, una sintesi artificiale, ma non una realtà vivente.
Se si va indietro nella storia ci si può rendere conto che non è sempre stato così: nel nostro medioevo, spesso caratterizzato come “oscuro” e primitivo, i monaci hanno dato vita a ciò che oggi ammiriamo come paesaggio rurale, con un rapporto del tutto costruttivo con la natura. In epoca ancora più antica l’uomo era riuscito ad ingentilire alberi selvatici facendone i nostri alberi da frutto, a trasformare le graminacee in grano da cui ricavare il pane, le vespe in api capaci di produrre il miele. Erano trasformazioni costruttive della durata di millenni e di cui oggi fruiamo ancora ampiamente. Con tutta la nostra scienza e il raffinato sviluppo tecnico, oggi non siamo in grado di raggiungere quanto hanno fatto i nostri predecessori. Come era possibile ciò? Possiamo ritrovare verso il futuro un rapporto biofilo, nel linguaggio di E.Fromm, con la natura?
Si tratta di farsi una idea della diversa coscienza in cui viveva l’uomo antico rispetto all’uomo attuale. Nel momento in cui noi ci addormentiamo scompare la nostra coscienza di spettatore, subiamo le forze di gravità, risuoniamo nel sonno con i ritmi cosmici, non siamo più con la coscienza dentro il nostro corpo. Dove siamo? R.Steiner ci dà una risposta molto chiara: siamo fuori di noi, diventiamo tutt’uno con l’ambiente circostante, soltanto che non ne siamo consapevoli. E’ una condizione paragonabile a quella del bambino piccolo che non ha ancora una consapevolezza di sé, ma vive identificandosi con le sue esperienze sensoriali che lo uniscono a ciò che sta intorno a lui. L’uomo antico era in uno stato di coscienza di questo genere, percepiva la natura con forze di chiaroveggenza, cogliendovi la presenza di entità spirituali. Si può anche dire con R.Steiner che l’uomo ha la coscienza desta grazie alla sua attività di pensiero, mentre nella sua attività volitiva è nel sonno, non sappiamo che cosa avviene nei nostri muscoli, nei nostri processi digestivi, cioè in quelle attività del nostro organismo che sono le premesse per la vita volitiva. L’uomo antico viveva nella sua volontà, non ancora nella sfera cognitiva. Questo significa che sapeva agire con la sua volontà magicamente sulla natura, poteva governare i processi vitali delle piante, gli eventi meteorologici, le forze della terra e le forze del fuoco. R.Steiner ci descrive come un uso errato di queste forze abbia portato alla scomparsa sotto le acque del continente atlantico, alla distruzione col fuoco dell’antica Lemuria. Avendo allora l’uomo ancora una coscienza collettiva, queste capacità magiche erano sotto la guida di figure sacerdotali, gli iniziati agli antichi oracoli. Tracce di questo rapporto magico con la natura si trovano in molte tradizioni, per esempio la capacità di Mosè di governare le acque del mar Rosso per fuggire col suo popolo dall’Egitto, oppure quella del Cristo che acquieta la tempesta del lago Genezareth. Anche le varie forme di esorcismo per far piovere, per evitare la grandine e così via, hanno in sé elementi di questa prima fase.
Una seconda fase è caratterizzata da un nuovo tipo di rapporto con la natura, non ci si identifica più del tutto con la sua realtà, ma ci si confronta con delle immagini della natura, è la fase che alcuni storici chiamano mitologico-simbolica e che possiamo legare allo sviluppo delle forze del sentimento. Un esempio significativo è dato dalla effige di una divinità che stava al centro dei misteri di Efeso, Artemide, la dea della caccia. Questo centro dei misteri dell’Asia minore, è a cavallo fra la cultura orientale e quella greca ed è legato anche alla tradizione cristiana. Infatti Giovanni Evangelista, dopo il periodo passato a Patmo dove scrive l’Apocalisse, vive ad Efeso e qui nasce il Vangelo che vede il Logos, la Parola, come realtà da cui tutto ha origine. La Diana efesina ha una fisionomia assai singolare e misteriosa: la veste con le gambe forma una specie di tubo, abbiamo la massima contrazione, il busto con i molti seni ha in sé il principio della moltiplicazione e della espansione, i due gesti archepici di ogni processo vitale, contrazione in autunno e inverno con la formazione dei semi, espansione in primavera ed estate con il ricco sviluppo vegetativo e floreale. Il collare della statua porta delle figure che rappresentano lo zodiaco, dietro al capo vi è il disco solare. Sappiamo che la vita della natura tesse fra le forze della terra e quelle del cosmo, delle stelle mobili e delle stelle fisse. Sopra il capo della Diana vi è un’arnia, lo spazio dove si svolge una vita sociale entro un calore tenuto costante, sulla veste vi sono raffigurate delle api, oltre ad altri esseri. L’ape è caratterizzata dal fatto che la sua capacità riproduttiva è tutta concentrata nella regina, per cui le api operaie non usano le loro forze riproduttive, ma sono in compenso capaci di produrre il miele. Nei misteri efesini si coltivavano i segreti della vita legati alle forze di riproduzione, queste nell’uomo possono essere nobilitate e trasformate nelle forze del linguaggio, per cui in questo centro spirituale si aveva un cammino di iniziazione, le cui tappe di ritrovano nelle figurazioni della statua di Artemide, che penetrava nei segreti della natura per giungere fino alle forze creative del Logos. Se si guarda la statua nella sua parte posteriore si possono notare alcune forme archetipiche: il cerchio dove abbiamo il calore e l’aspetto sociale dell’arnia, delle pieghe che formano una specie di raggiera triangolare che irradia come la luce, l’ape si orienta nelle sue danze grazie alla luce polarizzata del cielo, una serie di mezze lune come fossero onde dell’acqua, il substrato per ogni processualità chimica là dove l’ape trasforma il nettare dei fiori, un fermaglio quadrangolare, con un elemento di struttura che l’ape realizza nelle cellette esagonali del favo. L’ape lavora e tesse con i quattro elementi della natura, cioè con le forze di vita della natura. Questa statua può essere presa a simbolo della vita della natura.
In un secondo centro dei misteri greci, ad Eleusi, il rapporto con la natura veniva espresso con immagini mitologiche, quelle di Proserpina che viene rapita da Plutone, il dio degli inferi, e di Demetra,la madre, che cerca la figlia nel tentativo di riportarla sulla terra, arrivando poi ad un compromesso: una parte dell’anno Proserpina vive sulla terra, potremmo dire che è la fase primaverile estiva della espansione della vita delle piante, e una parte dell’anno vive con Plutone negli inferi, la fase di contrazione e invernale del respiro della natura. Abbiamo cioè una immagine mitologica della natura quale ritmo, quale grande respiro della terra.
Col passare dei secoli questo rapporto mitologico con la natura tende ad esteriorizzarsi, le immagini non vengono più vissute con una partecipazione interiore e diventano allegorie. Si può ricordare una tipica figurazione allegorica della terra vista come “madre” di ogni vita, la “Tellus” dell’Ara pacis di Roma: con il cigno viene raffigurata l’aria, con una specie di mostro l’acqua, la fecondità della vita con i due bambini che tiene in braccio, la vita agricola dagli animali domestici e dalle piante. L’uomo ormai si desta alla vita dei sensi, guarda il mondo con l’occhio fisico, il raziocinio spegne le facoltà chiaroveggenti e le realtà spirituali della natura diventano pallide allegorie.
Aristotele, il padre della cultura del pensiero, non lavora soltanto come filosofo, ma fa anche molte e dettagliate osservazioni della natura con un occhio non molto diverso da quello dello scienziato moderno. Quale maestro di Alessandro Magno gli trasmette in una forma anche schematica la conoscenza dei quattro elementi, i “rizomata” che Empedocle vedeva all’origine della vita della natura, la terra, l’acqua, l’aria e il fuoco, si tratta della nota rosa dei venti che viene poi presa come base della medicina di Galeno. Vi è anche un nesso con la vita dell’anima, là dove si parla dei quattro temperamenti, anch’essi inseriti nello schema galenico: melanconico (terra), collerico (fuoco), flemmatico (acqua), sanguinico (aria). Per ogni elemento vi sono poi due qualità dette secondarie: per la terra il freddo e l’umido, per l’acqua l’umido e il caldo, per il fuoco il caldo e il secco, per l’aria il freddo e il secco. Queste qualità avevano poi diverse intensità dette “gradi”, per cui per esempio il pepe era caldo e secco al quarto grado, la rosa era fredda al primo grado e secca al secondo grado. L’uomo si è ormai destato al mondo della materia, da un lato, e dall’altro inizia a sviluppare una autonoma vita di pensiero.
Nel mondo nordico dell’Europa il rapporto con la natura ha uno sviluppo un po’ diverso che vale la pena di essere ricordato, in quanto fino ad oggi il mondo del settentrione, l’Irlanda ed i paesi scandinavi per esempio, e quello meridionale mediterraneo, hanno una relazione spesso molto diversa con la natura. Noi siamo più rivolti alla nostra interiorità, alla vita dell’anima, al nord si è più rivolti alla natura e alle sue trasformazioni. Un esempio si può vedere nella storia della pittura se si confronta il paesaggio di un pittore fiammingo con quello di uno dei nostri pittori del Rinascimento: al nord la natura e l’attività agricola prevalgono decisamente sulla figura umana, al sud la priorità è data con grande evidenza all’uomo, messo al centro dalla nostra tradizione umanistica. I sacerdoti degli antichi misteri druidici operarono in senso magico con gli esseri della natura molto più a lungo rispetto a quanto avveniva nell’oriente e nel meridione, anche la facoltà chiaroveggente che consente di percepire gi esseri elementari come gli gnomi le ondine, le silfidi e le salamandre, oppure i giganti del gelo e le entità delle tempeste, si sono mantenute praticamente fino agli inizi della moderna epoca scientifica. Gli altari dei druidi erano all’aperto, nella grande natura, non vi erano templi con spazi chiusi, i menhir erano strumenti per cogliere l’agire della forze del cosmo. Si vivevano ancora con una intima relazione gli eventi della natura che non erano sperimentati come realtà esterne e lontane dall’uomo.
Abbiamo visto così tre grandi tappe nel rapporto dell’uomo con la natura: una fase magico religiosa legata allo sviluppo della volontà, una fase mitologica simbolica legata allo sviluppo del sentimento e l’inizio di una fase scientifica legata allo sviluppo del pensiero. Questo sguardo al passato consente di cogliere diverse dimensioni della coscienza dell’uomo, così da avere qualche elemento per potersi orientare verso il futuro, là dove si fa il tentativo di andare oltre quell’approccio necrofilo visto all’inizio, in direzione di un percorso biofilo adeguato all’uomo moderno. (fine prima parte)