di Luca Mion
(Dal Primo Notiziario 2014)
Un’emozione forte mi prende quando, come stamane, rileggo le poche pagine de “L’Ape” dal Libro degli Animali di Fabio Tombari, quarta edizione (“per la gioventù”), Mondadori, era il 1938. Pochi poeti scrittori muovono l’animo umano come Tombari e, nei suoi scritti, quanta saggezza e conoscenza del mondo vivente… Trasporto animico e saggezza incarnata: lo provo e la riconosco, anche con le mie api, ad ogni incontro con loro. E la giornata di sole di ieri, “calore-frutti” da calendario biodinamico, è stata così il secondo incontro dal sapore primaverile; le api s’affrettano quest’anno, un altro anno dal clima perlomeno insolito.
Non possiamo non riconoscere che il clima è cambiato, sta cambiando: da noi (siamo verso il corso del Piave in provincia di Treviso) ma anche altrove, gli inverni si sono “ammorbiditi”, i mutamenti climatici sono spesso repentini e di grande intensità, sono sparite le fitte nebbie, spesso un cielo velato ed un’umidità diffusa accompagnano le nostre giornate. Le api soffrono anche questo. Ne soffrono perché non sono abituate a mantenere anche d’inverno un ciclo attivo di covata, desidererebbero un seppur breve ma più tranquillo riposo, che garantisca loro di sbarazzarsi almeno per un po’ di tempo dei parassiti (come l’acaro Varroa destructor). Ne soffrono perché sono esseri solari e non amano proprio l’umidità diffusa nell’aria, si sviluppano nell’arnia e sulla colonia d’api troppi protozoi/funghi (come il Nosema ceraneae o il recentissimo Crithidia mellificae). Ne soffrono perché le violente variazioni climatiche e le brevi “finestre” di tempo utili per la bottinatura (in particolare nel periodo primaverile quando la raccolta di polline per la covata nascente è di fondamentale importanza) non permettono loro di garantirsi scorte adeguate.
L’aridità del paesaggio agricolo che spesso incontriamo, sempre più monospecifico, dove si assecondano di anno in anno le indicazioni colturali che provengono dall’ ”alto”, offre un territorio sempre più spoglio di siepi, sempre più povero di fiori, sempre più inquinato. Ma non è una situazione isolata della nostra realtà padana:
– nell’ultimo rapporto sui cambiamenti climatici stilato dalla Commissione IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) delle Nazioni Unite, sintesi di un lavoro di studio di 2500 esperti del settore di tutto il mondo si evidenzia che l’uomo sta inesorabilmente alterando le condizioni climatiche del nostro pianeta;
– dall’ultimo Rapporto dell’Agenzia Europea dell’Ambiente si evince invece che, per esempio, negli ultimi 20 anni il numero delle farfalle da prateria in Europa si è ridotto del 50% (!) [Piergiorgio Liberati, Apitalia, novembre 2013];
– dal Progetto BeeNet 2012/2013 (a cura del Coordinamento Nazionale CRA-API, IZS-Ve, Università di Bologna, SIN) si evince che nei campioni di polline prelevato all’interno dell’alveare sono stati rilevati in totale 52 diversi principi attivi: 24 fungicidi, 17 insetticidi (anche i temibili neonicotinoidi che stordiscono le api), 6 acaricidi e 5 erbicidi…[L’APIcoltore italiano” n. 9, Dicembre 2013].
Cos’altro ancora dobbiamo leggere o sentirci dire per smuovere le nostre coscienze?
Non voglio dipingere ulteriormente con colori cupi questo quadro ma vorrei anzi lanciare una speranza ed una concreta idea operativa… Vediamo con calma cosa potremmo fare in questo periodo, nella prossima primavera-estate, per aiutare le api, per aiutare noi stessi: partiamo da un premessa di carattere scientifico sulla necessità di intervenire.
Tutto il mondo della scienza apistica sembra concordare sul fatto che è la qualità e la varietà dei fiori (oltre alla quantità), quindi qualità e varietà dei pollini in particolare (ma anche di nettari e propoli), che le api ricercano e di cui necessitano per una vita sana.
Gianni Savorelli, uno tra i migliori esperti scientifici italiani del settore, anche in collaborazione con altri Colleghi, ha recentemente pubblicato alcuni articoli (vd. Apitalia n.5,6/2013 e n.2/2014) in cui si evidenzia al proposito quanto segue:
– per quanto concerne il fungo Nosema ceraneae, è la quantità e la qualità dell’alimentazione proteica (leggasi polline) che l’ape riceve che consente alla “fabbrica biochimica” dell’ape di poter produrre maggiori quantità di difese;
– per quanto concerne i trattamenti varroicidi (contro l’acaro Varroa utilizzati anche con l’obiettivo, oramai non più secondario, di ridurre la forte carica virale delle api che si è accertato essere direttamente proporzionale alla presenza dell’acaro stesso) questi comportano immunodepressione e dispendio energetico da parte delle api per detossificarsi dagli stessi principi attivi e questo dispendio energetico è meglio sostenibile se l’ape ha una “buona alimentazione”;
“…sia la competenza immunitaria della singola ape, come viene chiamata, sia l’efficienza dell’immunità sociale (dell’organismo alveare s’intende qui) dipendono, in maniera drammatica, da quello che l’ape mangia: ciò che l’alveare raccoglie. … Insomma, l’ambiente, per quel che offre da portare a casa, è fortemente condizionante le difese delle api …E’ soprattutto dalla concatenazione delle diverse infezioni, particolarmente in situazioni di scarsità di polline che l’alveare si trova a mal partito… La ristrettezza di disponibilità alimentare (intesa soprattutto come qualità) … è la base sia per l’espressione delle difese immunitarie che per il ricambio della popolazione”;
– da ultimo, la maggior suscettibilità ai fitofarmaci richiede all’ape uno sforzo ulteriore per la loro detossificazione: “E’ dunque la possibilità di un’ottima alimentazione proteica in autunno, cioè la quantità di scorte (proteiche) “ammassabili” all’interno del corpo, che determina quanto tempo le api invernali possano campare”.
La strada per ridare una speranza alle api sembra dunque dover passare per le nostre mani umane, dobbiamo ridare alla nostra Terra un po’ della ricchezza di cui l’abbiamo privata. L’agricoltura biodinamica ci è alleata in questo. Così facendo abbiamo anche la possibilità di riequilibrare la nostra azienda, il piccolo mondo in cui viviamo, perché le api ci aiuteranno con il loro compito di regolare e dispensare correttamente l’astralità nell’aria, sono un meraviglioso veicolo di astralità tra l’alveare e le piante che aspirano all’elemento astrale. Dobbiamo allora seminare fiori e piantare piante da fiore per le api ma, quali fiori e quali piante?
A livello mondiale le esperienze in tal senso non mancano anzi, si fanno sempre più frequenti. Ad esempio, al recente Convegno Mondiale di Agricoltura Biodinamica tenutosi a Dornach il cui tema quest’anno è stato le “Api Creatrici di Alleanze”, diverse le testimonianze in questa direzione. Heidi Hermann (Gran Bretagna), Peter Brown (con esperienze dal Sud Africa, dalla Germania e dall’Inglilterra), Gunther Hauk (Virginia) e Michael Thiele (California) con un approccio all’apicoltura di impostazione “naturale” ci hanno mostrato meravigliosi campi fioriti seminati giust’appunto per le api. Eppoi Thomas van Elsen dalla Germania mappatore di erbe selvatiche… Tutti ci spronano alla custodia delle bordure spontanee dei campi, all’impianto e cura di siepi polifite, alla realizzazione di zone di set-aside (a fronte magari di qualche piccolo contributo pubblico) e ad immaginare di seminare strisce di fiori selvatici anche in centro abitato, nelle aree residuali.
Ma veniamo alle nostre realtà. Come abbiamo detto in apertura non possiamo non considerare che il tempo sta cambiando, la Terra segue la propria evoluzione e, pure le nostre api mutano le loro necessità: presumibilmente avranno sempre più bisogno di trovare un territorio limitrofo (ed è noto che per la raccolta del polline le api preferiscono muoversi poco, possibilmente entro un raggio di 800 metri, tanto più d’inverno se le temperature sono basse) ricco di pollini anche nel periodo tardo autunnale ed invernale. Poi, con l’arrivo della primavera, almeno da noi in Italia, sono generalmente abbondanti le specie microterme a fioritura primaverile precoce, mentre la fioritura estiva o tardo estiva risulta difficoltosa e per il clima e per la scarsa fertilità del suolo.
Noi dell’Apicoltura Maricolli abbiamo messo a punto un approccio che è in parte di studio ed in parte operativo e potrebbe costituire un’ipotesi di lavoro anche per altre realtà agricole.
L’inverno passato è stata l’occasione per affrontare ancora alcuni studi sulle api ed il nostro primo obiettivo era quello di capire se il contesto ambientale in cui viviamo fosse sufficientemente ricco di fioriture (erbacee, arbustive e da piante d’alto fusto) per un sano ed armonico sviluppo delle nostre famiglie d’api. Abbiamo condotto un’indagine su di un raggio di circa un chilometro che ha evidenziato forte carenza floreale per le piante erbacee da fiore, media carenza per le arbustive e meno marcata per le piante d’alto fusto (grazie anche alla presenza di vivai di piante limitrofi e di un ricco parco nelle vicinanze).
Da queste basi si sono poi approfonditi gli studi sulle esigenze delle api in termini di piante pollinifere e nettarifere (prediligendo ovviamente le prime per tutti i motivi sanitari succitati) in modo da pianificare semine ed impianti nella prossima primavera-estate.
Non ha gran senso elencare qui i nomi propri di tutte le piante che abbiamo scelto: labiate perenni (alle quali abbiamo dedicato una zona riservata), semine scalari di facelia, borragine e senape nera, aiule destinate alle semine annuali di aglio, papaveri, girasoli, sedano, meliloto, ecc… Forse più interessante potrebbe essere l’approccio che abbiamo avuto e che ora vi descriviamo.
Nel corso di questi ultimi anni ho sempre avuto la curiosità di osservare dove le api bottinavano di preferenza nei giorni, nelle settimane che si susseguivano dal solstizio d’inverno in poi (l’ape figlia del sole ne segue in modo fedele la crescita e la decrescita durante l’anno). Ed allora si scoprono ritmi e preferenze impensabili. Mi annoto dove bottinano le api nei diversi periodi dell’anno, volutamente anche un po’ lontano dal nostro apiario, e questo mi aiuta a capire che cosa cercano e che cosa manca loro nei dintorni del nostro apiario. Ed allora a partire da dicembre le si vedrà per esempio dal nespolo giapponese a qualche varietà di viburno, dai bucaneve ai primi noccioli, dalla veronica allo sporadico tarassaco, eppoi sul salicone, dagli olmi, al frassino minore, al corniolo, dalle spighe dell’ontano alla lonicera fragrantissima, eppoi ancora sul tarassaco ora più frequente e via via così in una danza continua e sempre più intensa.
Nascerà così la voglia di dare alle api una grande ricchezza di fiori, nascerà anche la voglia di realizzare per loro quella che noi abbiamo chiamato “la farmacia delle api” perché noi siamo intimamente convinti che siano le api stesse, se ne hanno la possibilità, a scegliere le piante ed i fiori per loro curativi (un po’ come farebbero, se potessero, le mucche al pascolo scegliendo le erbe giuste che, una volta entrate nel ciclo del latte, aiuterebbero i loro vitelli a guarire dai malanni giovanili).
Anche Klaus Fleischmann (apicoltore viennese del secolo scorso) ipotizzò nel comportamento delle api in fase di raccolta una scelta dei fiori basata sulle proprietà medicinali delle piante visitate. Attualmente G.Savorelli, L.Tufano e D.Baracchi [vd.Apitalia, gennaio 2014] si chiedono: “L’ape, secondo le situazioni, è in grado di valutare la propria condizione sanitaria e fare delle scelte di “automedicazione” cercando di bottinare cibi a maggior valenza medica?”. Dicono di non aver ancora molte risposte ma, di certo, hanno osservato che in presenza di covata calcificata (altra micosi delle api) vi è un aumento nella raccolta di propoli.
Nei nostri piccoli appezzamenti di terreno dedicati alle api cerchiamo di adottare, per quanto ci è possibile delle tecniche di agricoltura biodinamica: in particolare la lavorazione del terreno la effettuiamo a mano o con mezzi leggeri con preventive arieggiature del terreno con un vecchio estirpatore (in mancanza di un adeguato ripuntatore o “ripper”) e successive passate con un comune erpice a denti fissi. Per le semine facciamo il possibile per prediligere giorni di “luce-fiori” del calendario biodinamico e per i trapianti delle piante arbustive da fiore preferiamo la luna discendente (da non confondere con la luna calante). Abbiamo un nostro cumulo che rinnoviamo ogni due o tre anni; invece molta è ancora la strada che dobbiamo fare sull’uso dei preparati da spruzzo.
Considerata l’evoluzione della nostra Terra, osservati i cambiamenti climatici in atto e le rinnovate esigenze delle nostre api, ci restano aperti alcuni interrogativi. In particolare circa la semina o l’impianto di essenze non autoctone che però sembrano quasi le uniche, in taluni periodi dell’anno, a poter dare un sostegno alle api. Si veda a titolo d’esempio la fioritura pienamente invernale del nespolo giapponese…
Un altro esempio è costituito da una pianta originaria dell’Asia orientale ma presente anche in Giappone, Australia ed Africa, l’ “Albero del miele” (così chiamato in Ungheria; invece “Beebee Tree” in America ed Inglilterra), è una Evodia, con oltre quaranta varietà, della famiglia delle Rutaceae (come il limone per intenderci anche se assomiglia molto di più ai nostri frassini comuni). Da noi si comincia ad affermare in particolare l’Evodia daniellii. La produzione nettarifera sembra sia molto significativa ma quel che più ci interessa è che le piante fioriscono normalmente nella seconda metà dell’estate e nel primo autunno e mantengono a lungo la fioritura e sembra che ci siano indizi che il fiore rafforzi il ciclo riproduttivo delle api. Inoltre il polline di Evodia impedirebbe la crescita di batteri. Oltre che nei frutti, anche nei fiori sono contenuti diversi alcaloidi che hanno, tra le altre, anche un’azione antibiotica (antivirale e antibatterica), ricostituente e stimolano il sistema immunitario [si veda anche Apitalia, n.11/2013, Martin Alber].
Altre sperimentazioni con essenze non autoctone di forte interesse per le api sono portate avanti dall’Università di Pisa, in particolare sulla Cephalaria transsylvanica (famiglia delle Dipsacaceae) che è una specie a fioritura estivo-autunnale, con fiori lilla e polline dal tipico colore rosa e sul Muscari Comosum con fioritura precoce in marzo ed aprile (famiglia delle Liliaceae).
Non dovremmo dimenticare che un impulso forte ad agire per aiutare le api ci è stato dato da R.Steiner in Le Api (O.O.351) nella conferenza del 10 dicembre 1923 disse:
“Sarà perciò consigliabile in futuro che l’apicoltore si attrezzi una specie di piccola serra, nella quale si possano coltivare artificialmente quelle piante particolarmente predilette dalle api in determinate stagioni dell’anno, ed è perciò opportuno che esse le possano visitare; è sufficiente una piccola aiuola di fiori, alla quale si dia accesso alle api, per esempio nel mese di maggio.”
Ed aggiunge successivamente:
“In tal maniera, aiutandosi con una coltivazione artificiale di piante nella vicinanza degli alveari, si riuscirà certamente a evitare in futuro tali malattie. Sono solo consigli da parte mia, delle proposte, ma sono convinto che si dimostreranno efficaci, perché derivano dalla conoscenza della natura delle api.”
Ed ancora:
“…si possono fare tali tentativi con piante coltivate appositamente, quando in certe stagioni dell’anno esse vengono a mancare in natura…”.
La convinzione e la forza con cui R.Steiner ha portato queste ed altre indicazioni nel corso delle conferenze sulle api mi ha sempre colpito. Credo che fosse molto vicino all’Essere delle api e volesse anche (come nel corso delle conferenze sull’agricoltura) dare degli aiuti concreti agli apicoltori già alle prese con le prime difficoltà.
Fiori per tutte le stagioni significheranno anche una varietà di colori meravigliosi ed un respiro diverso per l’Ape e per l’Uomo.