La Terra non è in vendita
di Carlo Triarico
Osservatore Romano 26/27 febbraio 2018
Intorno ai profitti dei brevetti ogm e alla proprietà dei semi si gioca una partita centrale della sovranità alimentare e della salute del pianeta
I media hanno reso celebre uno studio sugli organismi geneticamente modificati (ogm) compiuto da quattro ricercatori di Pisa, pubblicato su «Scientific Reports» come la definitiva prova a favore delle colture transgeniche. In realtà l’annuncio omette gravemente informazioni, che avrebbero mostrato un quadro tutt’altro che rassicurante. A questo equivoco ha contributo l’università pisana presentando sul suo sito lo studio con il titolo Nessun rischio per la salute umana, animale e ambientale e l’aggiunta «conclusioni univoche». I giornali e la gente non leggono il complesso testo in inglese, giustamente dell’università si fidano e comunicano che è stato provato che gli ogm non sono pericolosi e non danneggiano l’agricoltura.
In verità sarebbe bastato informarsi presso altre università e presso studiosi seri per capire che si tratta di uno studio su vecchie ricerche criticato da diversi scienziati: nulla di nuovo e dati molto parziali, fa notare Raffaele Zanoli, ordinario al Politecnico delle Marche. E sono gli stessi pisani ad ammettere che «alcune categorie non sono state adeguatamente trattate nel nostro database, come la biodiversità e i cicli biogeochimici del suolo». Sarebbe a dire che non sono incluse dalla selezione dei dati le circostanze centrali del dibattito. Come rileva il genetista Salvatore Ceccarelli, tra i massimi esperti in agrobiodiversità genetica, lo studio non considera che la salute umana è influenzata dal microbioma, che dipende dalla biodiversità e variabilità alimentare, apporti preclusi dall’uniformità transgenica. La minaccia alla biodiversità che gli ogm potrebbero portare comporta danni all’uomo, all’ambiente e all’economia. Trascurare l’incidenza di questo fattore e rassicurare sull’assenza di pericoli appare ingannevole.
Intorno ai profitti dei brevetti ogm e alla proprietà dei semi si gioca una partita centrale della sovranità alimentare e della salute del pianeta e non è un caso che la notizia sia stata diffusa dai media proprio accanto a un importante voto dell’Unione europea sulle colture transgeniche, il 27 gennaio scorso, quando il ministero italiano della salute si è schierato a favore. Ma è davvero stato provato che gli ogm non sono pericolosi?
Lo studio pisano trascura i tanti parametri della sicurezza alimentare e prende in considerazione solo la presenza di micotossine, sostanze cancerogene generate naturalmente sul mais per effetto di stress o attacchi parassitari. Nel mais ogm, manipolato con un organismo letale per gli insetti, lo studio assicura che le micotossine sono inferiori del 29 per cento. Ma inferiori rispetto a che? Ebbene le colture ogm contenenti il principio letale per gli insetti sono state confrontate con colture cui non è stato applicato alcun intervento di cura, che ovviamente si sono ammalate e hanno sviluppato molte più micotossine. Ossia è stato paragonato mais ogm con mais che mai troveremo in commercio. L’agricoltura industriale limita le micotossine con i fitofarmaci mentre l’agricoltura biologica e biodinamica risulta vincente con le buone pratiche agronomiche non invasive e l’adozione di organismi competitori (un semplice fungo studiato nella sede di Piacenza dell’Università Cattolica del Sacro Cuore abbatte le micotossine del 95 per cento). Questo perché tutto il mais in commercio non può contenere micotossine oltre una bassa soglia, considerata per legge. Comparare un qualsiasi mais (che sia ogm, industriale non ogm, oppure bio) con del mais lasciato a sé stesso, prova solo che senza alcuna pratica agronomica si ottiene un prodotto peggiore.
La pretesa di presentare un gruppo di favorevoli o contrari come i risolutori sulla questione transgenica è un incauto programma. Già nel 2015 trecento scienziati hanno comparato su «Springer» le pubblicazioni e messo in guardia da simili semplificazioni, evidenziando che la comunità scientifica è profondamente divisa sulla pericolosità alimentare delle colture ogm: insomma, non ci sono certezze. L’enciclica Laudato si’ ha chiesto su questo maggiori ricerche e un dibattito responsabile, ampio, non riservato solo agli scienziati. Ha invitato a evitare facili conclusioni, da qualsiasi fronte provengano, e soprattutto a non omettere la completezza delle informazioni, che a volte appaiono selezionate secondo particolari interessi. Questo ci si aspetta innanzitutto dagli uomini di scienza e questo purtroppo non è avvenuto a Pisa.
I quattro studiosi hanno dichiarato di aver compiuto un’analisi sulle ricerche degli ultimi vent’anni: oltre seimila pubblicazioni scientifiche ufficiali e validate. Ne saremmo ammirati, se non fosse che in realtà i dati sono poi stati tratti solo da 76 pubblicazioni, prevalentemente nordamericane, e sono state scartate le altre, tra cui le decine di pubblicazioni che evidenziano danni ai mammiferi. È certo che scegliere poco più dell’uno per cento delle fonti condiziona i risultati dello studio alla correttezza della selezione adottata, con il rischio evidente di rappresentare più le intenzioni di chi seleziona che non lo stato reale dei fatti. Per esempio, il giudizio sulla qualità alimentare del mais ogm proviene solo dai dati di 32 pubblicazioni, lo 0,5 per cento, e non è stato ritenuto interessante fornire numeri sui residui di pesticidi. I dati dell’effetto delle piante ogm sugli insetti sono solo quelli rassicuranti di 5 pubblicazioni, meno dello 0,1 per cento. Hanno eliminato dall’esame le pubblicazioni sui problemi biodiversità ed emissioni di anidride carbonica.
Soprattutto non sono stati considerati i pericoli più gravi: la distruzione degli equilibri ambientali e la conseguente povertà contadina. La colza transgenica resistente al diserbante glifosato, per esempio, ha trasmesso questa caratteristica alle sue infestanti, che ormai per essere estirpate richiedono interventi sempre più massicci.
Uno studio pubblicato dalla National Academy of Sciences statunitense evidenzia che il mais ogm ha prodotto mutazioni in un coleottero dannoso, diventato immune. È avvenuto quanto si temeva: mentre il transgenico costruisce piante sempre più specializzate su un problema, impreparate ai cambiamenti ambientali, i loro competitori naturali si evolvono e si rafforzano.
I pisani ammettono il problema in poche righe, promettendo che si troveranno sempre migliori ogm via via che gli insetti diventeranno più resistenti. Ceccarelli la chiama «obsolescenza programmata» a opera dell’industria biotech, che rende l’agricoltore dipendente dall’acquisto di nuovi semi e pesticidi. A oggi non si sa quanto questo potere tecnocratico sia controllabile nel tempo. Il batterio inserito nel mais ogm è proprio quello che in natura la biodiversità usa per limitare le popolazioni di insetti e che l’agricoltura biologica e biodinamica applica solo in casi di emergenza. L’obsolescenza programmata dall’industria biotech sta eliminando irrimediabilmente un presidio tra i più potenti a protezione della natura e dei contadini più poveri del mondo. Come informano i pisani, la maggioranza degli ogm è destinata proprio alle coltivazioni dei paesi in via di sviluppo. Si tratta prevalentemente di monocolture brevettate di mangimi, coltivate su crescenti latifondi multinazionali per gli allevamenti intensivi del Nord del mondo.
Come tutte le università, quella di Pisa e il Sant’Anna sono sottoposte a gravi restrizioni economiche. Dispiace vedere prestigiose accademie non disporre delle risorse. Questo non deve però mettere la nostra ricerca nelle condizioni di ingraziarsi gruppi di interesse per sopravvivere.
La mancanza di risorse pubbliche, o disinteressate, è il principale nemico della libertà di ricerca. Per questo occorre rafforzare la ricerca indipendente, istituire autorevoli banche dei semi pubbliche o gestite in sussidiarietà, che assicurino la tutela delle varietà e la loro disponibilità ai contadini. A questi ultimi vanno garantiti sia il giusto prezzo del loro prodotto sia la possibilità di riseminare e far evolvere i miscugli di sementi. Lo scambio partecipativo di saperi e pratiche è un passo che sarà utile tanto alla sovranità alimentare, tanto all’autorevolezza delle istituzioni scientifiche, nella consapevolezza che madre Terra non è in vendita.
Scarica qui la pagina dell’Osservatore Romano Settimanale con l’articolo originale
Vedi qui la risposta del Rettore della Scuola Sant’Anna di PIsa su La Nazione del 28 febbraio 2018
Vedi qui la risposta del 21 marzo 2018 su La Stampa di Roberto Defez (CNR)